GIALLO MOSCATO il mio primo racconto giallo dal libro di autori vari “13 TONI DI GIALLO”
UNITRE VOGHERA
di Angela Megassini
Ero stanco. Stanco della cattiveria umana. In tanti anni di lavoro come investigatore privato ho incontrato molte persone che dietro ai loro sorrisi celavano profondi abissi di malvagità.
Omicidi, tradimenti, spionaggio industriale, indagini patrimoniali e tante altre particolarità del mio lavoro mi avevano portato a prendermi un periodo sabbatico: mi ero trasferito da più di due anni a Montalto Pavese, dove avevo trovato una piccola casa in aperta campagna, non lontana però dal paese. Ero immerso nei vigneti che tanto amavo e potevo finalmente dedicarmi al mio lavoro preferito: fare il sommelier. Niente più cadaveri, sangue o pedinamenti, ma solo aria pura, lunghe passeggiate e tanta pace. Vivevo con Aldo, il mio gatto, che un giorno si era presentato alla porta di casa, arrivando da chissà dove. Forse anche lui era stanco di qualcosa, sta di fatto che diventammo subito grandi amici; anzi, complici direi.
E con il tempo mi sono convinto di una cosa: lui si sente molto più cane che non gatto; così come io mi sento molto più sommelier che non investigatore.
Ho imparato a fare il sommelier per onorare la memoria di mio padre, appassionato viticoltore di Stradella che mi ha insegnato ogni colore, ogni sfumatura, ogni riflesso di un grappolo d’uva.
Dopo aver fatto un corso, parecchi anni fa, a detta di molti divenni davvero bravo, tanto che girai il mondo con il mio tastevin sul quale ho inciso le iniziali GR: Giuseppe Ricci, il nome di mio padre. Sarebbe stato proprio orgoglioso di me e di tutti i premi che ho raccolto nella mia carriera. Quando ero piccolo un giorno mi disse: “Da oggi ti chiamerò Signor Pinot” perché non smettevo mai di fargli domande sulla vigna e sull’uva, e ancora molti mi chiamano così. Anche qui in paese.
A Montalto nella piazza c’è una bellissima enoteca il cui proprietario, Maurizio Colombo, ha un’immensa cultura vitivinicola. È una persona di ampie vedute, giovane ed entusiasta, aperto a ogni tipo di rinnovamento e quando ha qualche novità mi chiama per sentire il mio parere.
A Montalto ho ritrovato anche Maria Zucca, uno dei miei timidi amori giovanili. Maria è più grande di me, è la padrona del ristorante che si trova in piazza, un locale che adoro, per quel suo bellissimo pergolato, e dove, nei giorni d’estate, amo andare a pranzo. In cucina l’aiuta il marito, Giulio Suari, un imprenditore molto capace, che coltiva i vigneti di Maria e produce un buon vino da servire al ristorante. Non ho mai confessato a Maria i miei sentimenti, però immagino se ne sia accorta. Lo capisco dalle premure che usa spesso nei miei confronti. Si dice che Giulio, suo marito, abbia il vizio del gioco. Mi sono ripromesso di non fare nulla e soprattutto di non dire nulla a Maria. Le voglio troppo bene per rovinarle la vita, già sconvolta per la prematura e tragica morte di suo nipote, Achille.
Nel marzo dello scorso anno, stavo facendo la mia solita camminata mattutina con Aldo fra i campi e i vigneti di Montalto, direzione la Madonna del Vento. La giornata era bellissima. Da lontano intravidi un nugolo di persone. Guardai Aldo e gli dissi:
– Saranno i soliti motociclisti che si radunano per fare un picnic.
A mano a mano che mi avvicinavo, cominciai a distinguere persone che conoscevo e fra loro anche don Mario Burani, il parroco di Montalto, e Giovanni Barbieri, amico di vecchia data che, pur vivendo a Calvignano, possiede alcune vigne che si trovano proprio in quella zona.
Arrivato sul posto vidi un uomo disteso a terra: era Achille, il nipote di Maria. Pareva svenuto accanto a un palo della vigna. Tutti gridavano “È morto, è morto!”. Giovanni mi disse:
– Ezio, tu che sei più esperto di noi, controlla per favore; intanto chiamiamo l’ambulanza.
Misi le dita sul collo di Achille, ma il cuore purtroppo aveva cessato di battere. Di fronte a me c’era un uomo di soli quarant’anni che la sfortuna aveva voluto far morire proprio in quei vigneti che tanto amava.
L’ambulanza arrivò dopo una quindicina di minuti, fra i pianti e le esclamazioni delle persone presenti. In tutto quel trambusto, vidi Aldo avvicinarsi al corpo di Achille e annusare una strana macchia giallastra sulla maglia, quasi invisibile, che sembrava essere di vino. “Vino a quest’ora del mattino?” pensai. Aldo, dopo averla annusata, fece un balzo indietro come se qualcosa lo avesse infastidito. Prima che si avvicinassero gli operatori sanitari, presi di tasca alcuni sacchettini che porto sempre con me per raccogliere fiori, semi o germogli da piantare nel mio giardino. Notai nella mano di Achille una sorta di raspo di uva con strani acini e alcuni rametti di legno che raccolsi in fretta, senza farmi notare. La vigna di Achille confinava proprio con quella di Barbieri, che quel mattino, così mi disse, doveva fare la palificazione. Era arrivato presto e si era accorto che c’era qualcuno a terra. Avvicinatosi, aveva trovato Achille esanime, aveva subito chiamato don Mario che, a sua volta, aveva chiesto aiuto a Renato Cerelli, la cui cascina è proprio all’inizio della salita. Ma Renato non era in casa, perciò la moglie aveva avvisato il bar dicendo che avevano trovato un uomo caduto in mezzo alla vigna di Barbieri. La notizia era diventata di domino pubblico e in molti, un po’ per aiutare, un po’ per curiosare, erano saliti alla vigna.
Il medico dell’ambulanza non fece che constatare il decesso di Achille. Nel mentre, era arrivata anche Maria che, straziata dal dolore, venne ad abbracciarmi.
– Com’è possibile, Ezio? – disse piangendo. – È sempre stato bene… Non può essere morto così, all’improvviso!
Quell’ultima frase instillò dentro di me un piccolo dubbio che subito archiviai.
Avevo conosciuto Achille perché era molto amico di Maurizio. Lo avevo incontrato poche volte e mi era sembrato un brillante imprenditore agricolo. Si era trasferito anni prima da Milano nell’Oltrepò Pavese dopo aver ereditato le vigne dei genitori. Lo vedevo spesso in TV, lo invitavano a convegni, fiere e si dava un gran da fare per il suo Oltrepò. Si diceva che riuscisse a far bere vino anche a chi era astemio.
Achille era molto legato a Romina Cerelli che viveva a Casteggio. Romina, una ricercatrice poco più giovane di lui, donna corpulenta e determinata, era la figlia del noto viticoltore Renato Cerelli.
Quel giorno, appena tornato a casa, il dubbio che avevo archiviato mi riapparve nella mente avvalorato dal fatto che Aldo era diventato silenzioso, continuava a girarmi intorno come per dirmi qualcosa. Io gli ripetevo:
– Aldo, guarda che sicuramente è morto per cause naturali. – Ma lui, a quella frase, miagolava e miagolava come per parlarmi. Allora mi ricordai di quando, dopo aver annusato la macchia sulla maglia di Achille, si era tirato indietro come se avesse sentito qualcosa di negativo. Aldo era abituato all’odore del vino che di tanto in tanto gli facevo sentire, e gli piaceva. Anzi, si faceva avanti per annusarlo una seconda volta, come a farmi capire il suo gradimento. Certo quella macchia era strana. Quasi invisibile, ma c’era. Svuotai le tasche e ritrovai i sacchetti con le cose che avevo raccolto. Osservai tutto con una lente: c’erano alcuni rametti di legno che sembravano presi da una vite e quel raspo, con acini che non avevo mai visto.
Il mattino seguente, andai da Maria. Mi disse che avevano portato Achille a Pavia per l’autopsia.
– Era sano come un pesce e lavorava come un mulo. Non ci credo che gli sia venuto un colpo così, dall’uno al due. Comunque, sai una cosa? Achille, a certa gente, gli ha fatto un piacere a morire! Ai padroni delle vigne davano fastidio le sue idee nuove: avevano paura che gli rubasse la piazza.
Ero arrivato a Montalto per vivere in pace, ma avevo capito che Maria aveva bisogno del mio aiuto.
Avevo ancora dei contatti fra i medici legali, così decisi di fare qualche ricerca. Scoprii che uno dei medici che avrebbero fatto l’autopsia, Marco Orneghi, era un mio vecchio amico di Milano. L’avevo incontrato mentre mi occupavo di alcuni casi di omicidio, quando collaboravo con la Polizia. Lui era specializzato in tossicologia. Lo chiamai il giorno stesso e gli esposi i miei dubbi, dicendogli che secondo me quella che sembrava una morte naturale in realtà poteva non esserlo. Ovviamente non gli parlai di Aldo, ma gli chiesi di far controllare bene quella macchia color giallo moscato che era sulla maglia del defunto.
– Contaci, – rispose. – Ti farò sapere.
La sera mi misi al PC e iniziai anch’io a fare alcune indagini.
“Perché Aldo si è così ritratto, dopo aver annusato quella macchia?” continuavo a chiedermi. “E se ci fosse stato del veleno? Però Achille non mostrava segni di avvelenamento, tipo bava alla bocca e sangue. E se fosse un veleno fantasma? Un veleno che non lascia tracce?”. Approfondii la mia ricerca sui veleni.
Scoprii che in Cina alla fine degli anni Settanta centinaia di persone in buona salute morirono improvvisamente e non se ne capiva la ragione. In seguito, studi scientifici rivelarono che la causa era da imputare a un fungo apparentemente innocuo.
Guardai Aldo e gli dissi:
– Ma se anche fosse, com’è arrivato fin qui un fungo cinese? – Aldo mi guardò fisso, come se anche lui stesse pensando la stessa cosa.
Attendevo con ansia il responso dell’autopsia che non era ancora stata fatta. Qualche giorno più tardi Maurizio, il padrone dell’enoteca, mi invitò a un evento in ricordo di Achille. Arrivai in anticipo e Maurizio mi accolse con le lacrime agli occhi.
– Ancora non riesco a credere che sia morto. Lo avevo visto il giorno prima e mi sembrava entusiasta. Mi ha confidato che l’estate scorsa ha avuto un’idea sensazionale che avrebbe sicuramente rivoluzionato il mondo del vino.
Non gli dissi i miei dubbi. Cercai però di capire di che idea si trattasse.
– Sai quanto Achille fosse all’avanguardia nelle sue tecniche vitivinicole e di come attraverso gli innesti si possono fare cose quasi miracolose. Da anni si chiedeva come poter fare bere il vino a chi non lo amava o a chi gli preferiva la birra. E ce ne sono tanti. Il suo scopo era arrivare al palato di molte persone distanti dal vino. Aveva studiato così tanto da essere riuscito a creare un innesto tra vite e luppolo che gli aveva prodotto un’uva al sapore di birra. Una sera mi ha portato una bottiglia di quello strano vino birrato e io sono rimasto a bocca aperta. Mai nessuno aveva avuto un’idea così geniale e innovativa: il gusto morbido del vino bianco unito al gusto un po’ secco della birra, tutto in un unico nettare.
Mi portò nel retro dell’enoteca dove teneva alcune bottiglie del vino che Achille gli aveva regalato, prese dal suo frigo cassaforte una di quelle bottiglie e me ne versò un bicchiere: io, da esperto sommelier, non riuscii a descrivere il piacere che quella bevanda mi diede. Achille aveva creato qualcosa di unico e straordinario non solo per la forma ma soprattutto per il sapore. Maurizio mi disse che Achille aveva fatto tutto di nascosto.
Molti suoi confinanti e viticoltori, infatti, non volevano che le sue strane idee contaminassero il mercato, sottraendo loro visibilità e guadagni.
– Quando lo scorso anno ha avuto il primo raccolto di quell’uva, – continuò Maurizio, – l’ha pigiata da solo e da solo ha creato poi il vino, proprio per paura che qualcuno, più che rubargli l’idea, gliela distruggesse. Ne aveva fatto un discreto numero di bottiglie che custodiva con cura.
– Il segreto di questo vino che sa di birra lo conosceva solo Achille? – chiesi.
– Per quanto ne so, nessun altro oltre a me ne era a conoscenza. Però, stava per fare un annuncio pubblico.
Di lì a poco l’enoteca cominciò a riempirsi. Maurizio mi presentò Romina Cerelli, l’amica di Achille. Parlammo molto di lui e della sua passione per l’enologia. Anche lei non si dava pace per quanto era accaduto.
– Passavamo molto tempo insieme io e Achille. Vivo a Casteggio, ma vengo spesso a Montalto a trovare i miei genitori.
Maurizio fece un toccante discorso di commemorazione; seguì un brindisi per Achille, amico caro e geniale. Realizzai con sorpresa che il vino servito per l’occasione era quello di Achille, con l’inconfondibile, inimitabile aroma di birra. Ma ancora più mi sorprese il sommesso commento di Romina, che smise di parlarmi.
– Sembra il vino di Achille…
Ma come!? Secondo Maurizio nessuno poteva sapere di quel nuovo vino.
Fra i presenti c’era anche Giulio, il marito di Maria che era rimasta a badare al ristorante.
– Per me Achille era più di un nipote, era quasi un figlio, – mi disse. – Oltretutto io e Maria siamo gli unici suoi parenti. Per fortuna era in gamba e sapeva cavarsela da solo: non ci ha mai chiesto niente. Anche perché non avremmo mica potuto aiutarlo! Stiamo attraversando un periodo difficile, i debiti sono sempre più alti, ma Maria è testarda e non vuole vendere le vigne… – Andava a ruota libera, decisamente già alticcio.
Alla fine della cerimonia, quando tutti se ne furono andati, Maurizio mi disse:
– Ezio, voglio regalarti una bottiglia del vino di Achille: so che tu lo apprezzerai molto.
Tornai a casa e mi misi al PC, non prima di essermi versato un bicchiere di quel superbo vino. Mentre battevo sulla tastiera, arrivò Aldo, si avvicinò al bicchiere e annusandolo iniziò a fare le fusa, come per dire: “Questo vino ha un profumo meraviglioso, mai annusato un vino così buono”.
In effetti aveva ragione: non so quale miracolo avesse fatto Achille, ma di certo quel vino era una vera bomba. Una bomba che avrebbe causato a qualcuno troppi danni e che perciò non doveva esplodere.
Il mattino seguente, durante la solita passeggiata con Aldo, passai vicino alla casa di Cerelli, il papà di Romina, che stava uscendo a piedi per andare in paese. Mi salutò e subito prese a parlare della disgrazia di Achille.
– Mi dispiace per mia figlia, anche se, a dirla tutta, io non ero contento che si frequentassero. Achille era sì bravo, ma, parlandone da vivo, aveva troppe manie di grandezza. Era sempre in televisione a parlare delle sue idee assurde che avrebbero solo danneggiato l’Oltrepò Pavese e la sua cultura millenaria legata al vino. Non accettava nemmeno i miei consigli sul diserbo. Proprio da me che sono il massimo esperto della zona sui diserbanti da usare in vigna. No! Achille voleva fare di testa sua, in modo biologico, solo con mezzi naturali.
Sembrava molto offeso da questa cosa.
– Signor Cerelli, a volte i cambiamenti fanno bene, il mondo progredisce e bisogna seguire i gusti delle persone che cambiano negli anni.
Lui, per tutta risposta, inveì adirato:
– Che ne sa lei di vino e di vigneti? Vuole venire qui a insegnarci il mestiere? – Si allontanò, lasciandomi basito. Sua moglie, che era rimasta sulla soglia di casa e aveva seguito la conversazione, venne a scusarsi.
– Non ci faccia caso, – disse. – È nervoso. Gli capita da un anno a questa parte di arrabbiarsi così tanto senza un perché. E se la prende con me e con nostra figlia. Pensare che Romina stravede per suo padre e farebbe qualsiasi cosa per vederlo un po’ contento. Ma lui niente.
Arrivammo alla Madonna del Vento e ne approfittai per ritornare sul luogo del ritrovamento. Aldo si intrufolò nella vigna di Achille e fece in modo che lo seguissi.
Notai che al centro della vigna interi filari di viti erano distrutti. A prima vista sembrava che quelle strane viti fossero state bruciate. Ma non c’era tempo di approfondire; avevo appuntamento con Maurizio per andare a casa di Achille.
All’arrivo, trovammo il suo gatto che miagolava in cerca di cibo. La casa sembrava in ordine, ma la porta della cantina era spalancata. Maurizio mi fece notare le bottiglie vuote accanto al lavandino.
– Strano, – disse, fiutando l’imbocco di una. – Sono quelle del vino birrato. Non è certo stato Achille a liberarsene!
Notai su una mensola una ricca collezione di liquori con simboli asiatici.
– Quelli, – spiegò Maurizio, – arrivano dall’ultimo viaggio che Achille e Romina hanno fatto in Cina. Per farli passare in dogana, lei si è spacciata per un’imprenditrice vitivinicola, usando la licenza del padre.
Qualche giorno dopo, ricevetti la telefonata di Marco, il medico legale.
– Ho fatto l’autopsia sul corpo di Achille e ho mandato ad analizzare quella macchia che mi hai segnalato. A un esame ottico non risulta nulla di strano: la morte è avvenuta per arresto cardiaco. Però per gli esiti tossicologici, dobbiamo aspettare ancora un po’, come tu ben sai.
Trascorrevo il tempo nell’attesa di aggiornamenti che chiarissero la morte di Achille e intanto me ne andavo a zonzo, sperando di fare qualche incontro “interessante”.
In una di quelle occasioni, entrai in chiesa e trovai don Mario che stava sistemando l’altare. Mi raggiunse subito e mi venne naturale aprirmi con lui come in confessione, dicendogli quanto ero turbato per la morte di Achille.
– Era un bravo ragazzo ma secondo me è andato oltre il seminato. Non faceva gruppo con gli altri viticoltori che spesso lo criticavano. Per fortuna c’era Romina che gli voleva molto bene. Insieme facevano lunghi viaggi: lei è una grande ricercatrice, appassionata di cultura orientale. Ma erano legati anche a questa terra, alle sue primizie: in primavera andavano a raccogliere i denti di cane e le cime di luppolo; in estate le more e le fragoline di bosco; in autunno i funghi e le castagne…
Quell’ultima frase accese una piccola luce nella mia testa, ma intanto don Mario aveva preso a parlare di Maria, facendo svanire l’idea che stava prendendo forma.
– Povera Maria. Suo marito gioca e mi ha detto proprio l’altro giorno che sta aspettando una grossa somma di denaro che gli consentirebbe di pagare i suoi debiti. Da dove provengano quei soldi non lo so, ma credo che lui speri nell’eredità di Achille. Temo sia addirittura preda degli strozzini. Ogni tanto si vedono strane persone aggirarsi nei dintorni del ristorante… Mah!
Mi congedai dal parroco con qualche elemento in più: un’esperta di funghi e uno zio che aspettava con ansia un’eredità.
Prima di tornare a casa passai da Maurizio. Volevo sapere di più di quel viaggio in Asia.
L’enoteca era deserta così ci sedemmo a chiacchierare. Mi raccontò che Achille e Romina avevano girato in lungo e in largo Cina e Giappone proprio l’anno prima.
– Insomma, una coppia molto affiatata, – commentai.
– Sì, ma negli ultimi tempi avevo notato che Achille era molto pensieroso e preoccupato. Forse erano in crisi, non so. C’era qualcosa che non andava. Come sai Romina è molto legata al padre e lui le faceva pesare il fatto di frequentare Achille.
Trascorsi i giorni seguenti cercando di smentire una verità che mi risultava difficile accettare, finché non ricevetti la chiamata di Marco.
– Te lo dico in anteprima perché, stuzzicato dai tuoi sospetti, ho fatto accelerare l’esame tossicologico: in quella macchia quasi invisibile c’è veleno di Trogia Venenata, un fungo asiatico, cinese per l’esattezza. C’è tutta una storia legata a quel fungo che pare abbia sterminato centinaia di persone. Comunque, la morte di Achille Montagna risale alla notte del quattordici marzo ed è stata causata da avvelenamento. – Aggiunse che avrebbero provveduto loro ad avvisare le autorità competenti per aprire il caso di omicidio.
Me ne rimasi fuori scena, in attesa che la notizia dell’omicidio diventasse pubblica. Poi, una mattina, mentre passavo davanti al ristorante, Maria mi corse incontro gridando:
– L’hanno ucciso, Ezio! Me l’hanno ucciso!
Maria mi raccontò di avere ricevuto la visita di un commissario di polizia che l’aveva informata dell’omicidio e delle indagini in corso. Con le lacrime agli occhi mi implorò di dare il mio aiuto, ma le spiegai che non potevo intromettermi senza una richiesta ufficiale.
Non so che cosa fece, ma riuscì nel suo intento. Fui chiamato a presentarmi al Pubblico Ministero che mi mostrò il referto dell’autopsia e mi disse che potevo svolgere le indagini in accordo con la polizia.
Scoprii con piacere che il commissario capo, Tarcisio Mirani, era un mio conoscente di vecchia data. Esposi quanto avevo scoperto e i dubbi da me nutriti su alcune persone del paese, in particolare su Renato Cerelli e sua figlia Romina, nonché sul marito di Maria, Giulio Suari.
Ritornammo sul luogo del delitto, come richiesto dal commissario, ma non fu rinvenuto nulla che non avessi già scoperto. Condussi i poliziotti anche a verificare quei filari distrutti. Presero alcuni campioni da analizzare.
Romina e suo padre furono interrogati per ore. L’alibi di Renato Cerelli era stato verificato dal medico del paese che lo aveva visitato a domicilio proprio il quattordici marzo dopo cena, perché aveva la febbre alta e non riusciva ad alzarsi dal letto. Romina aveva dichiarato di essere stata tutto il giorno dal padre malato, in attesa che arrivasse il dottore, cosa non confermata dal medico.
Una sera mi chiamò il commissario capo, Mirani, dicendomi che avrebbero perquisito le case dei maggiori sospettati, Romina e Renato Cerelli, e mi chiese di accompagnarlo.
Andammo prima a casa di Renato dove, a parte grandi quantità di vino e diserbanti di ogni genere, non trovammo nulla di particolare. Poi andammo a casa di Romina, a Casteggio. Il suo studio era pieno di fotografie di funghi, sulla scrivania appunti e formule chimiche. Tra le sue mail ne trovai una di Achille che le inviava un comunicato per la divulgazione alla stampa della sua grande trovata. Era datato 14 marzo. Gli agenti si portarono via tutto, compresa una strana bottiglia contenente un liquido giallo moscato su uno strato di foglie.
Intanto in paese i sospettati erano diventati mostri. I pettegolezzi si trasformarono in indiscutibili verità. Tutti a dire: “Lo sapevo”, “Ero sicuro che fossero stati loro”, “Lo odiavano”. Giunse anche voce del fatto che, prima dell’omicidio, Cerelli, armato di taniche, era stato visto andare nella vigna di Achille. A fare cosa? Rimaneva un mistero, ma io avevo già i miei fondati sospetti.
Venni a sapere da alcuni testimoni che la sera prima dell’omicidio Romina e Achille erano stati visti discutere animatamente a Casteggio. Si scoprì che non solo il padre non approvava le iniziative di Achille, ma anche Romina negli ultimi mesi era diventata scontrosa e irascibile nei suoi confronti.
E finalmente mi chiamò il commissario per dire che Romina aveva confessato. Aveva avvelenato lei Achille perché il nuovo prodotto che lui intendeva immettere sul mercato avrebbe distrutto tutto quel mondo tenuto lontano dalle innovazioni; ma soprattutto avrebbe annientato suo padre. Lei non voleva vederlo soffrire; in passato aveva già avuto un infarto; di certo, il successo del vino birrato gliene avrebbe provocato un altro.
Quando ricevette la mail di Achille, Romina fu presa dal panico. Cercò di convincerlo a non divulgare la notizia, ma lui fu irremovibile. Allora lo invitò a casa e gli fece bere quel miscuglio di vino e veleno pensando che nessuno l’avrebbe scoperta, se il corpo fosse stato trovato nella sua vigna. Così, con una scusa, lo portò proprio nella vigna e quando si accorse che il veleno stava facendo effetto se ne andò lasciandolo agonizzante.
Che cosa fosse successo a quelle strane viti distrutte lei non lo sapeva, non c’entrava nulla. Pensai che di certo era stato suo padre. Durante l’interrogatorio, lui sostenne di avere solo aiutato Achille con il diserbante e che fosse stato Achille a farne un uso smodato, quindi non gli venne imputato nulla.
In pratica, il segreto di Achille finì con lui. Restava forse qualche bottiglia di quel pregiato vino che sapeva di birra; Romina aveva pensato bene di svuotare tutte quelle che c’erano nella cantina di Achille, per evitare che qualcuno, magari Maurizio, prendesse l’iniziativa di metterle in commercio.
Dopo la chiamata del commissario, mi sedetti in poltrona e Aldo mi saltò in grembo facendo le fusa. Sembrava dire: “Noi gatti siamo gli unici veri amici dell’uomo”.
– Aldo, – gli sussurrai, – se non ci fossi stato tu, forse un’assassina sarebbe rimasta impunita.
Lui iniziò a strusciarsi contro di me, facendomi capire quanto era contento.
La soluzione del caso non ha cancellato Achille dalla memoria di chi gli ha voluto veramente bene, e delle sue ricerche rivoluzionarie si parla ancora. Maria è quella che si adopera più di tutti per aiutare a ricordarlo: lo fa organizzando nel suo ristorante incontri con specialisti e notabili del settore.
Mi ha appena telefonato per farmi un invito:
– Signor Pinot, – ha detto in tono divertito, – sabato prossimo posso contare sull’onore di avere anche lei a parlare della genialità di mio nipote Achille?
Ho riso e, ovviamente, ho accettato.
Lei è la fantastica Signora Chiara del mitico Ristorante Italia di Montalto Pavese alla quale mi sono ispirata per creare un personaggio del mio racconto.
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