LA GIUSTIZIA DEI FIORDALISI biografia di un partigiano dal libro di autori vari “BIOGRAFIE Vite che meritano di essere ricordate”
UNITRE VOGHERA
LA GIUSTIZIA DEI FIORDALISI
di Angela Megassini
Biografia di un partigiano raccontata da Angela
Questa è una storia vera. Per il rispetto dei familiari, ho usato nomi fittizi. Per il rispetto delle vittime, il resto è stato riportato così come è accaduto.
Nel piccolo paese di campagna dove sono nata, non si è mai parlato di guerra. Sembrava che la mia famiglia non avesse vissuto gli eventi drammatici legati al secondo conflitto mondiale. Mio padre non parlava né di fascismo né di partigiani. Mi sono sempre chiesta perché. Poi un giorno, durante alcune interviste fatte agli ultimi anziani rimasti in paese, ho scoperto che ci sono state poche situazioni pericolose e nessuna di grande rilievo. Nulla o poco sapevo di chi aveva combattuto il fascismo, sacrificando addirittura la propria vita come hanno fatto molti partigiani. Fino a quando non ho incontrato mio marito, il cui nonno è morto partigiano. Mi ha raccontato una storia che mai avrei creduto possibile.
Giuseppe Bongiorni nasce a Borgonovo Valtidone sulle colline Piacentine il 24 gennaio 1901. I suoi genitori appartengono a una famiglia contadina di umili origini che vivono in una cascina svolgendo lavori agricoli. Giuseppe ha sempre vissuto in campagna e qui ha imparato il mestiere di fattore. Un lavoro difficile e faticoso che, nonostante tutto, lui ama molto. Si dice che riconosca gli animali della stalla dal muggito e dall’odore. È un gran lavoratore sempre pronto a imparare cose nuove.
Nel 1924, a ventitré anni, si sposa con Maria, anche lei contadina. A inizio Novecento non è facile avanzare professionalmente in campagna, ma Giuseppe è molto bravo nello svolgere tutte quelle attività proprie del fattore. Questo lo porta a essere richiesto in parecchi cascinali anche lontani dal suo luogo di nascita. Giuseppe e Maria sono sposati da pochi mesi quando si trasferiscono in una grossa cascina a Voghera dove restano per cinque anni fino al 1929. Maria lavora la terra e aiuta nelle faccende la padrona di casa; Giuseppe si occupa degli altri braccianti e accudisce gli animali. Nel giro di qualche anno mettono al mondo cinque figli.
Dopo tre anni, nel 1932 un nuovo incarico agricolo porta Giuseppe a trasferire la sua famiglia a Tortona, presso un’altra cascina. In questa azienda lavora principalmente come addetto al bestiame. Giuseppe è un lavoratore instancabile, puntuale e rispettoso. Sempre pronto ad aiutare gli altri.
In una calda mattinata di giugno del 1934 accade un fatto che cambierà radicalmente la sua vita. C’era un bracciante fra i trenta della cascina, che si presentava sempre con un’ora di ritardo sull’orario, fissato di solito alle cinque di mattina. Quel fatidico giorno il bracciante arriva di nuovo in ritardo e un rimprovero di Giuseppe scatena un acceso diverbio tra i due che si trasforma presto in una rissa collettiva durante la quale il ritardatario perde la vita.
Preso dal panico Giuseppe scappa senza sapere che questo avrebbe segnato la sua condanna. Visti i dissapori tra lui e il bracciante, Giuseppe è certo che verrà accusato di essere il colpevole del delitto. Anche perché il cognato della vittima è un famoso avvocato. Purtroppo ciò che Giuseppe teme diventa realtà e lo stesso giorno viene arrestato dai carabinieri.
Dagli atti del processo si deduce che non ci sono prove certe a suo carico ma, nonostante ciò, dopo un processo che oggi sarebbe considerato altamente discutibile, Giuseppe viene giudicato colpevole e condannato a scontare trent’anni di carcere.
Da indagini presso l’archivio di stato di Alessandria, risulta che il fascicolo riguardante questo controverso caso, sia scomparso per sempre.
Sconcertante il fatto che il legale, cognato della vittima, subito dopo l’accaduto si sia recato dalla madre di Giuseppe chiedendole una grossa somma di denaro per farlo scagionare e successivamente emigrare in Argentina. Dunque l’avvocato non era poi così convinto della sua colpevolezza.
Purtroppo i suoi genitori non possono permettersi quella somma, che ammonta a ottocentomila lire, una cifra enorme in quegli anni, e così Giuseppe viene condannato e rinchiuso nel penitenziario di Soriano nel Cimino vicino a Roma. Intanto, la moglie Maria, rimasta sola e senza soldi, è costretta ad affidare i suoi bambini a diversi istituti.
Anche per alcuni dei loro figli il destino non è stato clemente: Giovanni, nato nel 1925, viene affidato al collegio dei frati a Monticelli di Napoli dove muore a diciassette anni per polmonite.
Mario, nato nel 1927, è ospite per dieci anni di un collegio a Borgonovo Valtidone.
Luigi, del 1928, vive parte della propria adolescenza a Genova in un collegio gestito da sacerdoti. Maria, che gli fa visita qualche tempo dopo, lo trova all’uscita della stazione ferroviaria mentre chiede la carità. Il bambino dice che sono gli educatori a mandarlo a mendicare. Maria lo riporta seduta stante a Voghera. I Carabinieri qualche giorno dopo si recano a casa sua per riportarlo in collegio, ma lei si oppone fermamente. Luigi morirà a soli trentaquattro anni per insufficienza cardiaca.
Alice, nata nel 1930, muore a soli tre anni per morbillo. Il papà, che allora era ancora libero, prima di seppellirla mette vicino al corpo la sua bambola.
L’ultima, nata nel 1931, è Agnese. Ha solo due anni quando viene affidata alle suore dell’Istituto Benedettino di Voghera dove rimane fino al compimento del suo diciottesimo compleanno.
Agnese era mia suocera.
La vita di Giuseppe, un uomo buono ligio al lavoro e padre amorevole sembra finita.
– Mi caricarono su un camion e viaggiammo per giorni e giorni, prima di arrivare al carcere, – confidò tempo dopo alla madre. – Pensavo alla mia Maria e ai miei bambini che avevo abbandonato. Non avevo colpa se non quella di aver voluto essere un buon lavoratore come mi hanno insegnato.
In prigione non smette di lavorare: presto gli viene dato l’incarico di cuoco. Giuseppe è un uomo forte ma anche premuroso, gentile, ci mette poco a integrarsi e a farsi amici. Insieme a lui sono incarcerati tanti antifascisti, alcuni molto noti che faranno poi parte della nostra storia. Da loro apprende quello che diventerà la sua missione: salvare l’Italia dal fascismo. Ormai ha quarantatré anni ed è in carcere da dieci, ma ne ha ancora parecchi da scontare.
– Era un’afosa serata di giugno, sentivo i grilli cantare dalle sbarre della cella, – raccontò. – Ero là da quasi dieci anni, in un castello al centro del paese trasformato in carcere. Le guardie mi rispettavano perché ero sempre disponibile ed educato. Avevo passato tutto il giorno a pelare patate per il minestrone della sera. Erano tempi duri, si faceva la fame. Ma io, da bravo cuciniere, cercavo sempre di aggiungere qualche erba aromatica che mi facevo portare da Romano, una guardia che aveva un piccolo orto nascosto nel bosco di Soriano. In cambio gli preparavo i pasti per la famiglia. Quelle erbe davano un pochino di sapore a quella specie di minestra che cucinavo ogni sera. I miei compagni mi volevano bene perché sapevano che facevo di tutto per farli mangiare dignitosamente. Si erano fatte quasi le sette e come sempre finita la cena, mi preparavo a sistemare la cucina quando sentii un rumore di aeroplani arrivare da lontano. I grilli smisero di cantare e a un certo punto ci fu un silenzio assordante. Poi non ricordo più nulla. Ripresi i sensi più tardi fra le urla, la polvere, le mura distrutte e alcuni compagni feriti. Ero coperto di polvere e perdevo sangue da un braccio. Mi alzai e affacciandomi a un varco nel muro vidi che non c’erano più le sbarre. Attorno a me solo devastazione. C’era una grande confusione, tutti che correvano e scappavano. Io rimasi lì impietrito. Per un attimo pensai perché Dio non avesse preso anche me.
Il 5 Giugno del 1944 i cacciabombardieri dell’esercito anglo-americano sganciarono una ventina di bombe sul paese di Soriano, sventrando una cospicua parte del centro medioevale, radendo al suolo alcuni rioni e distruggendo decine di case. Il bombardamento causò la morte accertata di 188 civili. Quel giorno Soriano e alcuni paesi limitrofi furono colpiti con l’obiettivo di bloccare la ritirata dei tedeschi.
Uno degli ordigni distrugge il castello trasformato in carcere dove è rinchiuso Giuseppe. Tutti i detenuti scappano e Giuseppe, che desidera più di ogni altra cosa rivedere la famiglia, ne approfitta e fugge anche lui. È ormai notte fonda e l’eco di quelle bombe gli ronza ancora nella testa. Poteva morire e invece è ancora vivo. Qualcuno gli sta dando una seconda possibilità? Qualcuno vuole che lui riscatti la sua libertà lottando per gli altri? Con questi pensieri che lo accompagnano attraversa tutta l’Italia viaggiando solo nelle ore notturne. A piedi, a volte chiedendo qualche passaggio. Dormendo in rifugi di fortuna e spesso sotto le stelle. Si ferma anche a fare qualche lavoretto in cambio di cibo e un giaciglio per riposare.
Racconterà poi la madre:
– Proprio in quei momenti iniziava ad accendersi in lui una grande voglia di giustizia, quella giustizia che non aveva mai avuto: mandato in carcere senza un giusto processo e imprigionato per qualcosa che non aveva fatto. Colpevole di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Dopo aver camminato per giorni e giorni, percorrendo più di seicento chilometri, solo, senza soldi e senza cibo, in quell’Italia martoriata dalla guerra, arriva a casa dei genitori.
Le autorità non lo cercano perché convinti che sia perito nel bombardamento.
Il carcere l’ha reso ancora più determinato.
Queste le parole di Maria, la moglie, che lo rivede una sola volta:
– La sua sete di giustizia era diventata la sua vita. Forse alcuni suoi compagni di prigionia lo avevano influenzato. Non poteva di certo rimanere a casa vista la sua condanna, ma io non potevo perderlo di nuovo. Volevo però che avesse una seconda occasione. Così dopo pochi giorni, seppur a malincuore, l’ho lasciato andare per raggiungere i combattenti partigiani.
Giuseppe si unisce al gruppo Giustizia e Libertà che opera tra le colline piacentine e quelle pavesi. Con loro partecipa a diverse azioni contro le milizie tedesche. Il suo nome di battaglia è Beniamino.
Durante un’azione viene ferito a una gamba ed è costretto a tornare a casa dalla madre, diventata per lui l’unico rifugio sicuro. Lei lo soccorre facendolo curare in gran segreto da un medico di cui si fida; ma non appena si rimette in piedi, Giuseppe torna dai suoi compagni.
La madre teme per quel figlio e dirà in seguito:
– Quella mattina lo vidi andare via, ancora una volta. Zoppicante ma con un gran sorriso. Era fiero il mio Giuseppe, sapeva cosa faceva e cosa voleva fare. Si girò più volte per salutarmi e per raccomandarsi di aspettarlo. In cuor mio, sapevo che non lo avrei rivisto mai più.
Giuseppe ritorna sulle colline e dopo pochi mesi si trasferisce a Pometo unendosi a un altro distaccamento partigiano. Quello è un territorio ai confini tra la Val Versa e la Val Tidone. Lì vicino c’è una rocca in cui si rifugiano i combattenti e nei suoi sotterranei i partigiani custodiscono armi, munizioni e viveri.
Quando arriva l’ordine di ritirarsi in Val Trebbia per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi tra la fine del ‘44 e l’inizio del ‘45 a Giuseppe viene detto di fermarsi alla rocca. Aveva quarantatré anni e per la sua età avanzata, poteva passare facilmente per un civile, data l’età giovanile della maggior parte dei partigiani. Il comandante gli affida l’incarico di custodire il materiale che c’è nella rocca consegnandogli le chiavi del magazzino. I suoi compagni sarebbero tornati dopo il rastrellamento. I militari tedeschi scambiandolo per un civile, lo avrebbero lasciato in pace.
Finalmente era arrivato il suo momento: il comandante aveva fiducia in lui e gli aveva assegnato un compito importante. La rocca era piena di materiale e lui ne era il custode. Aveva le chiavi di quello che per i partigiani era un prezioso tesoro.
Purtroppo però una nuova prova aspettava Giuseppe. Due suoi compagni, originari di Broni, gli intimano di dar loro le chiavi del magazzino per prelevare viveri probabilmente da rivendere alla borsa nera.
Giuseppe non si fa intimorire e si rifiuta di consegnare le chiavi. I due per spaventarlo lo accusano di essere un traditore e aver venduto parte del materiale ai tedeschi. (Questa circostanza sarà poi smentita dal suo comandante che quando tornerà ritroverà il magazzino in ordine come lo aveva lasciato).
Vedendolo fermo nella sua decisione, i due lo rinchiudono in una chiesetta adiacente al magazzino sperando di rendere Giuseppe più ragionevole. Nonostante il loro sforzo non solo non trovano le chiavi del magazzino che Giuseppe aveva nascosto molto bene, ma a un certo punto vengono assaliti dalla paura di essere a loro volta denunciati da Giuseppe ai partigiani per ciò che intendevano fare ovvero svaligiare il magazzino. La stessa notte mentre è sequestrato nella chiesetta, Giuseppe con una matita che tiene sempre in tasca, scrive su un foglietto:
«Mi chiamo Giuseppe Bongiorni sono un partigiano onesto e faccio il mio dovere… queste sono le mie volontà… ricordatevi di salutare queste persone: mia madre Luigina Manzoni residente a Castelnuovo Val Tidone, mia moglie Maria e i miei tre figli, Mario, Luigi e Agnese.
Se mi uccidono lo fanno per vendetta, perché sono un partigiano comunista che non si arrende. Ecco i nomi dei miei assassini (…)
Giuseppe Bongiorni».
Sul biglietto scrive anche i nomi di coloro che di lì a poco lo uccideranno. Giuseppe nasconde il biglietto, con i suoi documenti in una fessura nel muro, fra due mattoni, in modo che non si vedano.
Tornati il giorno dopo, vedendo che Giuseppe non si fa corrompere, i due lo impiccano al campanile della chiesetta e lo seppelliscono in un prato lì accanto.
Al suo ritorno, il comandante non lo trova più.
Deve scardinare la porta per entrare nel magazzino.
Seguono ogni sorta di bugie sulla sua scomparsa: dapprima dicono che sia stato fucilato dai due perché considerato un traditore. Quando ritrovano il corpo, però, non ci sono fori da proiettili, ma segni di impiccagione. Alla famiglia in un primo tempo si dice che a ucciderlo sono stati i tedeschi.
Poi come accade in tutte le storie, la verità viene a galla. Secondo alcuni comandanti il fatto era risaputo ma viene messo a tacere perché l’episodio avrebbe infangato la memoria collettiva della Resistenza e, negli anni immediatamente seguenti la fine della guerra, queste efferatezze era bene che restassero nascoste. Tutti sapevano ma facevano finta di nulla.
Se oggi conosciamo la vera storia di Giuseppe, lo dobbiamo a Mario, il figlio secondogenito, che ha inseguito per anni la verità su questo fatto drammatico. Mario ha cercato i comandanti partigiani e dopo averli trovati, ha scritto loro per avere risposte. È andato a intervistarli, ha ricostruito minuziosamente ogni dettaglio, ricevendo addirittura minacce di morte. Il suo carteggio è impressionante: una vita intera dedicata alla riabilitazione del padre.
Voleva che i due colpevoli, i veri traditori, pagassero per ciò che avevano fatto.
Mario appena saputo della morte del padre, non si dà per vinto e va alla ricerca del corpo che sembra scomparso, finché non riesce a trovarlo. Ecco come ricorda quel momento:
– Lo abbiamo trovato a fine conflitto tra mille peripezie, per dargli una degna sepoltura. Il suo corpo era sotterrato accanto al pozzo sul lato destro della chiesa. L’umidità circostante aveva preservato la salma e fu più facile il riconoscimento. I suoi capelli erano cresciuti enormemente. Mi avevano detto che era morto da traditore, ma i partigiani li fucilavano i traditori, lui invece era stato impiccato.
Mario voleva che suo padre fosse considerato un eroe. Era solo un ragazzo di vent’anni, determinato a far sì che trionfasse la verità.
Ma non fu così. Anche dopo la sua morte, Giuseppe ha avuto pochi riconoscimenti dai partigiani.
Ogni volta che la sua storia si racconta c’è come una sorta di muro di gomma che fa sì che venga dimenticata, ogni volta sempre un po’ di più.
Nel 2007, il giorno del mio compleanno, con mio marito, siamo andati a intervistare il comandante partigiano che aveva ritrovato il biglietto di Giuseppe.
Queste le sue parole accompagnate da lacrime e tanta amarezza:
– Sono contento che siate venuti. Non avevo più avuto notizie di Mario, il figlio di Giuseppe. A un certo punto aveva smesso di scrivermi. Vi racconto di come ho trovato il biglietto di Giuseppe. Nel pomeriggio del 14 febbraio 1945 stavamo preparando una camera ardente nella chiesa di Pometo per due tedeschi caduti durante un’imboscata. I corpi dei soldati sarebbero poi stati prelevati dai loro commilitoni. La stavamo allestendo nel piccolo oratorio della chiesa. Ripulendo il luogo, un soldato mi chiama e mi dice che, infilata in un’intercapedine tra due mattoni dietro all’altare, c’è una lettera. Gli chiedo di portarmela e aprendola inizio a leggere: «Mi chiamo Giuseppe Bongiorni sono un partigiano onesto e faccio il mio dovere…queste sono le mie volontà…». Avevo capito che quella doveva essere la lettera di un prigioniero. Era scritta fitta, fitta e piegata, impolverata perché era stata per mesi nascosta tra i mattoni. L’abbiamo trovata per miracolo. Ho capito subito che Giuseppe non era un traditore. Addirittura in seguito qualcuno lo accusò perfino di essere un fascista. Dovete sapere che allora bastava una dichiarazione. Quello era l’anno del rastrellamento e si diffidava l’uno dell’altro. Le denunce erano all’ordine del giorno fatte per vendetta o per altri fini personali. I suoi aguzzini, ora deceduti, non hanno mai pagato.
Alcuni importanti elementi del carteggio relativo all’episodio sono contenuti in un archivio partigiano. Sulla cartella si legge:
«Caso Bongiorni, un caso dovuto al fanatismo, ignoranza, cattiveria e incoscienza».
In quell’archivio è contenuto il biglietto originale scritto da Giuseppe, il suo testamento. Il testamento di un uomo buono, coraggioso e sfortunato. Un partigiano che ha sacrificato la vita per la sua e la nostra libertà.
Il comandante che ci aveva concesso l’intervista, che è stato davvero un eroe partigiano, morì un mese dopo il nostro incontro. Ricordo ancora il suo sguardo rassegnato, quasi il suo rammarico di non aver potuto fare di più. Era stato il custode di un grande segreto, un segreto che è morto con lui.
Così recita il certificato di morte di Giuseppe:
«Si dichiara che il Patriota BONGIORNI Giuseppe, cl. 1901, appartenente alla 5° compagnia della 2° Brigata, è deceduto in combattimento il giorno 24 gennaio 1945, in località Pometo».
Nel campo dove Giuseppe è stato sepolto dai suoi assassini e nel punto esatto dove fu poi ritrovato il suo corpo, crescono spontaneamente, ogni anno, decine e decine di fiordalisi, quasi a voler suggellare un luogo dove tragedia ed eroismo si unirono in maniera drammatica e indissolubile.
Adoro i fiordalisi, ma da un po’ di anni se ne vedono sempre meno. Così appena posso, vado a Pometo vicino a quella chiesetta per vederli. E tra un fiordaliso e un altro mi sembra di vedere anche gli occhi di Giuseppe. Azzurri come i fiordalisi.